Prosegue il lavoro nelle otto città (Bari, Catania, Messina, Milano, Cagliari, Genova, Napoli e Roma) oggetto dell’azione “Interventi pilota per la creazione di tavoli e network di stakeholder coinvolti a diverso titolo con le comunità RSC, Rom Sinti e Camminanti, al fine di favorire la partecipazione dei Rom alla vita sociale, politica economica e civica”, promossa dall’UNAR, l’Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali del Dipartimento Pari Opportunità, in qualità di beneficiario delle azioni di sistema previste dal PON Inclusione 2014-2020.
L’Azione, implementata dall’Associazione temporanea di imprese composta da NOVA Onlus – Consorzio Nazionale per l’Innovazione Sociale (capofila) e i partner Fondazione Casa della Carità “Angelo Abriani”, Associazione 21 Luglio e Fondazione Romanì Italia, con la supervisione del Dipartimento Pari Opportunità-UNAR, intende redigere – e laddove già presenti aggiornare –Piani di Azione Locali che favoriscano e facilitino l’inclusione e la partecipazione alla vita sociale delle comunità Rom.
Oggi vediamo più nel dettaglio qual è la situazione nel capoluogo campano, parlandone con il referente locale del progetto Gigi Mete. (nella foto)
«Le comunità rom a Napoli vivono prevalentemente in campi (comunali o spontanei) situati nelle zone est e nord della città. Con le dovute differenze, in via generale possiamo affermare che queste comunità – un migliaio di persone circa – vivono in condizioni di particolare disagio sociale: pochissime famiglie trovano case in affitto; la maggioranza vive nei campi spontanei dove, con materiali di risulta, vengono costruite e abbattute baracche a seconda degli arrivi o delle partenze.
Non molto più dignitosa è la situazione per chi è ospitato nei Villaggi Comunali. La pandemia causata dal COVID ha esasperato le già gravi situazioni di scarso accesso ai servizi sanitari per adulti e minori e ostacolato le attività lavorative consistenti in mendicità, raccolta e vendita di panni, oggetti vari, materiali di ferro, plastica etc. Il funzionamento altalenante degli ambulatori ha rallentato l’accesso delle donne a pratiche di prevenzione sanitaria e ha aumentato le abitudini di accesso a tali strutture unicamente per motivi emergenziali. Alcune famiglie cercano un alloggio nel territorio sia per beneficiare di comfort tra cui l’energia elettrica e l’acqua corrente calda, sia per ottenere la residenza e i documenti necessari a una maggiore stabilità. Ma si scontrano con un mercato delle case complesso, dove non mancano i pregiudizi nei loro confronti per cui trovano solo poche offerte troppo care per loro.
Anche le condizioni di vita e di scolarizzazione dei minori sono peggiorate. Prima dell’emergenza sanitaria le famiglie hanno sempre partecipato, con più o meno assiduità, ai programmi di vaccinazioni di routine e di scolarizzazione della prima infanzia. Ciò ha consentito una maggiore e tempestiva presa in carico sanitaria e scolastica dei più piccoli, ma attualmente le famiglie non aderiscono più per timori dettati da un “passaparola” che ha criminalizzato la pratica delle vaccinazioni. Questa tendenza è più forte tra le comunità rumene, anche a causa di forti movimenti novax nel Paese di origine. La chiusura delle scuole e la conseguente didattica a distanza, resa difficoltosa da condizioni quali la mancanza di corrente elettrica nel campo, di device per tutti e di tempo e competenze da parte dei genitori, hanno ulteriormente ostacolato il processo di inclusione nella scuola primaria e secondaria di primo grado. Pochi sono i ragazzi e le ragazze che si connettono traendo dei benefici formativi di lunga durata.
Lo sforzo delle associazioni del terzo settore di mantenere i contatti con la comunità rom con aiuti alimentari e sanitari, di praticare la didattica solidale accollandosi, con mezzi propri, l’onere della formazione dei bambini grazie ad una rete sociale esistente nel territorio, è minato da risultati esigui rispetto ai bisogni; tutto ciò crea sfiducia negli stessi operatori».
Dunque, esistono ancora sacche di grave emarginazione.
«Esistono famiglie estremamente povere, prive anche dei mezzi per potersi spostare verso mete più vantaggiose, che vivono con quel poco che riescono a trarre dal lavoro che praticano con strumenti di risulta; oppure adulti soli che vivono dell’aiuto di qualche parente nel campo».
Ma, al di là della situazione piuttosto critica, ci sono esperienze virtuose di integrazione che coinvolgono queste comunità?
«Non si evidenziano particolari esperienze virtuose di integrazione, se non alcune nel passato, che hanno riguardato i livelli di partecipazione delle famiglie rom alla vita scolastica dei minori (partecipazione agli incontri scuola/famiglia e a eventi conviviali organizzati dal terzo settore) e approcci proattivi nei confronti della salute che hanno coinvolto molte donne, le quali però in seguito hanno abbandonato il campo».
E come può influire positivamente, ma soprattutto “praticamente” nella vita delle persone rom il progetto PAL UNAR?
«Sicuramente sulla ricerca delle risorse finanziarie (PON, Fondi ministeriali, regionali, comunali) per la realizzazione di un vasto programma d’intervento coordinato nelle diverse città; sull’elaborazione, in collaborazione con il Terzo settore, di un programma che intervenga in maniera sinergica sui quattro assi della Strategia Nazionale.
Dal punto di vista degli operatori – rom e non rom – che accompagnano e monitorano tutto il percorso, è importante puntare sulla formazione degli stessi e su migliori condizioni di lavoro.
L’azione può inoltre farsi portavoce di una vasta campagna di sensibilizzazione dei decisori politici nazionali ed europei, degli amministratori locali, dei servizi pubblici e dell’opinione pubblica».